
Questo articolo è un atto d’amore verso la professione psicologica, ma analizzando tutto, ci rendiamo conto di quanto i mental coach stiano vincendo, rispetto a noi psicologi.
Le Olimpiadi purtroppo si sono concluse, ma un bel medagliere ce lo portiamo a casa! E’ stato bellissimo!
Delusioni! Gioie! Pianti con l’inno di Mameli mentre la bandiera si alzava verso l’alto e tutti gli sport disparati.
Ho un’adorazione totale per le Olimpiadi! Mi svegliavo alle 3 per vedere le gare più importanti e non andavo a dormire se non dopo aver rivisto le sfide perse per colpa del fuso orario.
Ma cambiamo il tema e spostamoci sulle affermazioni che Jacobs (ma non solo lui) ha fatto. Dopo ever vinto con grandissimo coraggio e forza la finale dei 100 mt, ha ringraziato tutte le persone che gli son state accanto, compresa la sua mental coach.
Quella del mental coach è una professione che non è professione. E’ una linea di confine tra lo psicologo e chi non può farlo. Non sono qui a sminuire l’ottimo runner, orgoglio degli Azzurri e tutta la nazione, ma a dar delle precisazioni significative su perchè queste figure mental fanno quello che fanno e non potrebbero.
Questo articolo nasce come atto d’amore nei confronti della mia professione. Noi psicologi dobbiamo ammettere che stiamo vivendo un momento complesso. Ci siamo fatti in quattro durante la pandemia per aiutare gli altri, siamo stati parzialmente attaccati nelle “platee di operatori sanitari che si allargano ” (siamo professione sanitaria da prima del virus, ma è un altro discoro) e il riconoscimento del nostro lavoro viene sempre meno. Ora, in tutto questo, le figure di confine prendono sempre più piede, si pubblicizzano e muovono perfettamente nel mondo social, ma anche in quello della salute, del lavoro e delle performance sportive. Ho detto all’inizio che questo articolo è un atto d’amore verso la mia professione, ma come tutti gli amori, un po’ di autoanalisi serve.
QUI trovate l’articolo che ho scritto per MOW-Magazine